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“Morte al Dark Honey” è il titolo del mio primo libro, firmato per esigenze editoriali con pseudonimo maschile e americano, Artie Holland. Erano gli anni 60 e allora una donna non scriveva di solito gialli, a meno che non fosse Agatha. Non che Artie abbia avuto tutto questo successo, ma pare che all’epoca vendesse bene. Inoltre e soprattutto il lettore sarebbe rimasto sconcertato da un giallo per di più americano scritto da una donna italiana. Quanto al giallo italiano ancora non se ne parlava. Si pensava che il paese del sole, della lirica e dei mandolini non fosse cornice adatta per vicende sanguinose. Negli anni ’60 si sognava in modo diverso.
Cominciai a battere sui tasti della mia Olivetti 35 con grande entusiasmo ma arrivata a pagina 5 conobbi il blocco dello scrittore. Non avevo più niente da dire. In quel terribile momento capii quanto, scrivere una storia di 135 pagine 30 righe a pagina 65 battute a riga e che piacesse al temuto lettore che avrebbe dato o no l’ok per la pubblicazione, potesse essere impegnativo. Perché così funzionava. Quello che scrivevo doveva rispondere a regole ben precise e quelle dello spazio sullo scaffale non ne erano che una parte.

Da allora sono passati molti anni e moltissime pagine. Artie Holland, Marion G Tracy, Gene Nelson, Kim Ball, Jack Hunt, Anonymous si sono avvicendati raccontando storie gialle, rosa, nere, erotiche,  costruite secondo precise direttive editoriali.

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Primo libro firmato per esigenze editoriali con pseudonimo maschile e americano Artie Holland.

Usavo l’Olivetti ma non solo. Cinquant’anni fa facevo smartworking nella worksphere e gli strumenti che consentivano il mio lavoro da remoto erano il quaderno e la penna che avevo sempre con me. Il piano era: dieci pagine al giorno.
L’ultima, di fine capitolo, la facevo cortissima ma ai fini editoriali valeva lo stesso. Scrivevo sempre, mentre facevo anticamera dal dentista, anche in vacanza, anche la domenica anzi, soprattutto la domenica, visto che gli altri giorni ero impegnata a fare la programmista regista o l’insegnante di pianoforte.
Lavoravo sempre. Avevo bisogno di guadagnare. Negli anni settanta, subito dopo la legge che permetteva il divorzio, separarsi da un marito avvocato con due figli di mezzo non era faccenda da poco. Inoltre la causa della mia separazione aveva a sua volta quattro figli e questo non semplificava le cose. All’epoca la libertà di scegliere costava cara in tutti i sensi e quello economico se era il meno rilevante era anche il più urgente.
Ho sempre lavorato e continuo a farlo anche se ora potrei farne a meno. I figli sono grandi e sono andati per la loro strada. I mariti sono morti. Ma scrivere può essere una necessità, o addirittura un vizio. Si tratta però di un vizio magico, che non toglie energie ma le regala. Scrivere lucida il cervello, mette ordine nelle idee, diverte e mantiene viva la speranza. Chi scrive storie deve immaginare, progettare, sognare.
Costruire una storia è un po’ come costruire un palazzo o una cattedrale o un ponte sullo stretto o magari una capanna con il tetto di paglia. Le mie capanne con il tetto di paglia sono parecchie e sono tutte diverse. Mi sono divertita a costruirle, continuo a farlo e continuo a divertirmi. Cosa c’è di più bello che vivere una storia? Inventarla.

Primo libro in francese: "la dame de verre"

LA DAME DE VERRE“Veneranda era segretamente convinta che il vetro fosse vivo, ma si trattava di una convinzione inconfessabile quanto un peccato mortale. Era anche convinta che certe persone avessero la stessa struttura del vetro. Credeva inoltre di saper riconoscere queste persone, cosa per niente facile visto che si trattava di una bizzarria mostruosa e rara. Per dirla tutta, Veneranda aveva incontrato una sola volta qualcuno, e per la precisione una donna, che era come il vetro. Ovviamente l’aveva subito riconosciuta, l’aveva soprannominata LA DONNA DI VETRO e quando le capitava di incontrarla   si faceva di nascosto il segno della croce e pregava per lei. Perché il destino del vetro lo conoscono tutti: un giorno o l’altro finisce in pezzi. Quella donna avrebbe fatto la fine del vetro, presto o tardi. Era solo una questione di tempo. Veneranda lo sapeva bene. Non per nulla  era maestro vetraio da tanti anni”

In una Venezia anni ’60 dove il sontuoso splendore si mescola ai miasmi dell’acqua putrida esaltati dallo scirocco, il cadavere di una donna incinta viene rinvenuto in un canale. L’inchiesta viene affidata a Ciro Mariani, commissario appena arrivato da Napoli che prova un profondo malessere di fronte a una città sconosciuta,  popolata da gente talmente diversa da lui da risultargli insopportabile. Contrariato dal dover condurre l’inchiesta in condizioni particolarmente traumatizzanti, si ritrova nelle sabbie mobili di un’inchiesta oscura il cui mistero lo seguirà come un’ombra nelle calli e lungo i canali, nei palazzi sontuosi o cadenti, di ponte in ponte e attraverso i campielli immersi nella soffocante umidità estiva dell’estate lagunare. Ossessionato da Lucrezia Labia, finirà per scoprire la verità che lei ha scelto per lui, lasciandosi dietro una città che l’ha stregato e una donna che non potrà mai più dimenticare.

PRODUZIONE LETTERARIA

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